"Vite immaginarie": il catalogo incantato delle esistenze irripetibili

Vite immaginarie è una raccolta di biografie brevi in cui Marcel Schwob reinventa personaggi storici e immaginari con uno stile raffinato e visionario. Ogni vita raccontata rivela l’unicità del singolo attraverso dettagli insoliti, trasformando la biografia in una forma d’arte.

Pubblicato per la prima volta nel 1896, Vite immaginarie di Marcel Schwob è un libro a metà tra erudizione e invenzione, che si presenta come una raccolta di biografie brevi, visionarie, a tratti ipnotiche. Schwob reimmagina le vite di personaggi noti e oscuri, realmente esistiti o del tutto inventati, con un linguaggio che sembra scolpito nell’ambra. Ogni racconto è un mondo chiuso, illuminato da un dettaglio fulminante, dove l’autore affina un’arte narrativa che anticipa Borges e tocca, con mano febbrile, il confine sottile tra realtà e finzione. La prosa, lucida e sofisticata, porta il lettore in una galleria di destini unici, ognuno modellato con cura estrema e un gusto malinconico per l’eccezione.

Un dio vestito da uomo
La raccolta si apre con la figura enigmatica di Empedocle, il filosofo-poeta di Agrigento che Schwob trasforma in un essere quasi divino, nato senza passato e destinato a una fine mitica. Vestito come un dio greco decadente, Empedocle cammina tra gli uomini con l’aura di un profeta e la solennità di un attore consapevole del proprio ruolo. Schwob non si interessa della filosofia dell'uomo, ma della sua leggenda: della sua apparenza, del suo silenzio, della teatralità della sua esistenza. È un’entrata in scena memorabile, che imposta subito il tono dell’intera opera: quello del mistero, della sacralità grottesca, della mitologia personale.

L’unicità come misura dell’esistenza
In ogni pagina Schwob mette a fuoco l’individuo, non il tipo. Non cerca ciò che rende un uomo rappresentativo del suo tempo, ma ciò che lo separa da tutti gli altri: una smorfia, un’abitudine, una mania. L’interesse va al gesto minimo, all’anomalia, al tic che tradisce l’interiorità più dell’intero curriculum pubblico. L’autore seleziona frammenti capaci di evocare una personalità completa, come se la verità di una vita fosse racchiusa non nei grandi eventi, ma in quel che resta nascosto sotto la superficie delle cose – uno sguardo storto, il modo in cui un uomo cammina o tace. Schwob costruisce così un mosaico umano in cui ogni tessera è irripetibile.

Tra filologia e allucinazione
Queste esistenze – siano esse di poeti, ladri, inventori, eretici o pazzi – non cercano di spiegare la storia, bensì di incantarla. Schwob attinge alle cronache, ai documenti, ai biografi dimenticati come Aubrey, ma li usa come materia da trasfigurare, non da verificare. L’accuratezza diventa strumento di vertigine: la precisione filologica sfocia in una mistificazione deliberata, e ciò che conta non è l’autenticità, ma la verosimiglianza evocativa. Così, la storia non è più un insieme di cause ed effetti, ma un deposito di apparizioni. Vite immaginarie è, in definitiva, una celebrazione del singolare e dell’effimero, narrato con la sobria potenza di chi sa che il dettaglio può contenere l’universo.

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