Dentro il meccanismo de "L’orologio astronomico": il romanzo-labirinto di Edoardo Sanguineti

Nel suo ultimo romanzo breve, L’orologio astronomico, Edoardo Sanguineti costruisce un racconto frammentario fatto di lettere, memorie e divagazioni, ambientato a Strasburgo. Tra realtà e finzione, l’opera indaga il rapporto tra scrittura, tempo e identità, sfidando le convenzioni della narrazione tradizionale.

Nel 2002, a settantun anni, Edoardo Sanguineti pubblica L’orologio astronomico, il suo terzo e ultimo romanzo breve, scritto durante una residenza d’artista a Strasburgo. Il libro è composto da cinquanta fogli, brevi frammenti che sfidano i confini del racconto tradizionale, abbracciando lettere, memorie, appunti e confessioni rivolte a un “tu” sfuggente e plurale. L’Istituto Italiano di Cultura di Strasburgo, committente dell’opera, impone come vincolo narrativo la presenza della sua sede, e da quel palazzo ha origine un viaggio che attraversa il cuore della città e i meandri della coscienza, sospeso tra realtà e finzione. L’orologio astronomico, monumento e simbolo, dà il titolo e la misura a un’opera che, più che raccontare, si interroga sul raccontare stesso.

Un incontro tra memorie e incertezze
La storia – o meglio, la possibilità di una storia – si apre con l’incontro tra E., un anziano scrittore, e A., una giovane donna, forse una “Scorpioncina”, conosciuta all’Art Café del museo. È un legame fatto di sguardi e ambiguità, in cui il tempo sembra distorto, i ricordi sono frammentari, e ogni pagina insinua il dubbio sulla veridicità degli eventi. Lo scrittore, consapevole della propria memoria fallace, annota, cancella, ricompone, come se stesse tentando di trattenere un senso destinato a sfuggirgli. Alcuni fogli sono lettere a personaggi evocati solo da iniziali: L., forse la moglie, R., T., e infine la direttrice dell’Istituto. Ma più che un diario coerente, L’orologio astronomico appare come una scatola di carte miste, dove il passato si confonde con il possibile.

La scrittura come macchina di smontaggio
Il libro si muove con metodo nel disordine, rifiutando la linearità e sfidando le aspettative del lettore. Ogni foglio è un esercizio di decostruzione, dove l’autore gioca con le convenzioni della scrittura e mette in scena il fallimento, o il limite, del narrare. La verità viene evocata, poi negata, e si alternano ritratti intimi, considerazioni sul linguaggio, accenni a una passione mai completamente confessata. Il meccanismo dell’orologio diventa metafora di un tempo umano sfasato rispetto al tempo meccanico e cosmico: l’esistenza non scorre in modo ordinato, ma avanza per salti, cancellature, ritorni. Ogni documento – una fotografia, un manoscritto, persino un videogioco – è un pretesto per un viaggio nella molteplicità dell’esperienza.

Il tempo che scrive e cancella
Nel fondo, L’orologio astronomico è un’opera che riflette su come si costruiscono i racconti e su cosa rimane quando il racconto si disgrega. La scrittura non è un atto di affermazione, ma un processo di esplorazione, e l’io narrante – consapevolmente alter ego dell’autore – si affida alla lingua come a un laboratorio, dove ogni parola può essere strumento o ostacolo. In questa stratificazione ironica e colta, si intravede anche una critica alla fiducia cieca nei mezzi di comunicazione, nella cronaca, nella memoria visiva. Come l’orologio della cattedrale, il romanzo mostra più di quanto sembri: è macchina del tempo e macchina del dubbio, che invita a guardare da vicino ciò che spesso diamo per scontato.

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