Palindromes; un film da rivedere
Si può essere Pirandelliani oppure si può essere Tod Solondz. Che si scelga di essere “uno, nessuno e centomila” oppure “palindromi” il risultato non cambia; a voi la scelta!
Si, perché la struttura di Palindromi, film prodotto in America nel 2004 e
presentato al festival di Venezia, è un esempio autentico di cinema
indipendente le cui tematiche, profonde e controverse fanno di questa pellicola
un qualcosa a circuito chiuso, palindromo per l'appunto proprio come il nome
della protagonista Aviva ed il messaggio che
l'autore cerca di trasmettere; puoi fingerti ciò che vuoi, indossare mille
maschere, ma ciò che la natura ti ha destinato ad essere non cambia ed in
sostanza, ogni passo è destinato a tornare su se stesso.
Su questa riflessione, senza ombra di dubbio appare
originale la scelta registica di dare volti diversi, tramite l'impiego di
differenti attori, ad uno stesso personaggio. Quasi come fosse una tragedia
greca nella quale le maschere indossate dagli attori davano loro la possibilità
di interpretare diversi personaggi.
All'interno di una struttura a episodi nella quale
musica e fotografia spesso parlano più delle parole stesse, tutto è molto
lento, riflessivo, freddo e falso come i rapporti tra i personaggi.
Quella presentata è di fatti una tragedia, una
visione pessimistica di una società ridondante e chiusa in se stessa, quella
americana, nella quale un' ingenua quanto smarrita adolescente cerca di essere
madre. Lo cerca con tutta se stessa fino ad affrontare la sessualità in modo
freddo e cinico, senza amore e senza tatto.
Molto riflessiva quanto toccante è la sequenza dove
la protagonista, seguita da un agnello gracile e candido come i suoi occhi,
entra e si addormenta in una barca giocattolo. Il volto dell'innocenza, non
basta; Aviva ha ormai smarrito la propria strada e la propria psiche!
In un sottile gioco dove vittima e vittimismo si
confondono, la vediamo scappare di casa per fuggire da quel' amore materno che
l'aveva invece costretta ad abortire. La ritroviamo, dopo un lungo percorso,
rifugiata in quello di “mamma sunshine”. Un affetto, quest'ultimo, bigotto e
falsamente moralista che la cura, la nutre, la veste e poi l'abbandona una
volta scoperte e fraintese le sue smaliziate pulsioni sessuali. Un possibile legame
critico al classicismo Hollywoodiano tutto acqua e sapone ma che
sostanzialmente si legge, e così vuole essere letto, come una critica al falso
perbenismo caritatevole di matrice cristiana.
Aspra e forte, quasi disincantata è la sequenza
finale. Qui l'amplesso amoroso è funzionale alla ripresa della struttura
circolare in cui i volti della stessa faccia tornano ad essere simbiotici;
“forte è il presentimento che diverrò madre”. Povera Aviva, “lasciate ogni
speranza voi che entrate” uomini che la consumate; Aviva, non sarà mai più
madre.