Ancora qualche giorno per visitare “Gauguin. Racconti dal Paradiso” al MUDEC di Milano
Il Museo delle Culture di Milano propone un ciclo di mostre dedicate ad artisti che hanno guardato con particolare interesse alle culture extraeuropee e a quelle primitive, o che essi consideravano tali, anche in Europa.
Il 20 e 21 febbraio prossimo, data in cui si conclude l’esibizione dedicata a Gauguin al MUDEC, Museo delle Culture di Milano, la mostra rimarrà straordinariamente aperta fino a mezzanotte, per permettere ai visitatori dell’ultima ora di poter godere di questa straordinaria selezione di opere del grande maestro impressionista provenienti da diversi Paesi.
La Mostra si concentra sul confronto fra i dipinti, le incisioni, le sculture e le ceramiche di Gauguin e le sue fonti di ispirazione. Le opere provengono in gran parte dal museo danaese Ny Carlsberg Glyptotek di Copenhagen, che ospita una delle raccolte più importanti al mondo di Gauguin, ma ma anche da altre collezioni, come il Musèe d’Orsay e l’Art Institute di Chicago.
Il viaggio proposto dalla mostra è un un viaggio fra fisico e interiore che aiuta a comprendere il percorso di apprendimento e di maturazione spirituale e psicologica che portò Gauguin a interpretare in modo assolutamente personale il primitivo.
Dai suoi viaggi e
nei suoi viaggi reali, Gauguin portò manufatti, opere d'arte occidentali
e non, che teneva sempre con sé per ispirarsi.
Nel suo peregrinare fra Parigi, la Danimarca, la Bretagna, Arles
e infine Tahiti, Gauguin osservava non solo i paesaggi, ma anche gli usi e
costumi e le opere d’arte locali, e nel desiderio di sperimentare qualcosa di
primitivo, egli incorporava ogni cosa nella sua arte. Le sue fonti,
come presentate nella mostra, sono un mosaico di culture ed epoche diverse,
periodi storici lontanissimi fra loro, oggetti e materiali
disparati, luoghi assai distanti fra loro.
La mostra si apre con il famosissimo Donna con fiore, Vahiné no te tiare, il primo quadro inviato da Gauguin a Parigi da Tahiti: un dipinto stilisticamente ancora europeo, benché prodotto nel 1891, appena giunto a Tahiti. Il quadro, oggi conservato a Copenhagen, ritrae una sorta di Monna Lisa “selvaggia”, e in Noa Noa, suo libro autobiografico, egli la descrive come una donna non dotata di grazia per gli standard europei, ma “bella di un'armonia raffaellesca”.
Tutta la sua opera di impressionista è percorsa dalla ricerca di semplicità, sinonimo di autenticità e verità, elementi chiave del suo concerto di primitivo, e quella per il primitivo è un'attrazione che percorre tutta la sua opera fino alfa sua morte.
Già nel 1888, in Les Alyscamps, altra tela di notevole importanza esposta nella mostra milanese, Gauguin fa un uso di colori accesi, quasi violenti, molto simili a quelli dei dipinti polinesiani. Ma la mostra non comprende solo dipinti, bensì anche sculture su legno e vasi della sua produzione ceramica, a testimoniare la completezza dell’opera di artista a tutto tondo di Gauguin. Fra i manufatti esposti, un vaso a forma di testa grottesca, di produzione databile fra il 1893 e il 1895, ovvero tardiva, poco prima del suo secondo viaggio a Tahiti, e che costituisce la più atipica delle 60 ceramiche rimaste dell’artista. Esso richiama i demoni di pietra delle chiese romaniche e gotiche europe, sulla scia di una moda passeggera di cui si trovano tracce nelle opere di altri artisti suoi coevi, sempre in linea con l'attrazione crescente che provava per le civiltà antiche o primitive. Realizzato in momento di innovazione dell'arte ceramica e al vertice del genio di Gauguin, egli stesso lo definisce, in un approccio quasi alchimistico, come la prova del fuoco dell'arte e dell'artista, frutto di un procedimento infernale che ha a che fare sia con l'abilità ma che con il caso.
Gauguin compie molti viaggi e si rivela disposto a sperimentare di continuo, a mettere in discussione qualsiasi tecnica e idea tradizionale di motivo, di allegoria e dei metodi artigianali. Considerare le sue opere in sinergia le une con le altre, dalle stampe alla pittura, alla ceramica, dai ritratti ai paesaggi e alle scene visionarie, mescolando culto e religione, vita e sogno, è fndamentale per comprendere la portata del suo lavoro: il suo mondo è un non luogo, è ovunque e da nessuna parte e si fonde in un mosaico di franmmenti di colore, di valori, di materiali che gli interessano indipendentemente dal contesto originario, a cui restituisce nuovo potere sul medium che in quel momento desidera utilizzare.
In
alcune tavole, come in Pescatrice di
alghe riecheggiano le influenze delle stampe giappoonesi in voga in Europa
in quel periodo; Papa Moena
(acqua misteriosa) è una tavola realizzata in Bretagna usando vecchi pannelli per
porte in quercia, un albero non nativo della Polinesia, benchè egli volesse
farlo passare per un’opera polinesiana, ed esprime il suo concetto di primitivo
nel senso più ampio: uno stato d'animo e dell'arte di estrema variabilità; una
tecnica artistica indipendente dal luogo in cui l’artista stesso si trovava:
ormai dipingeva quadri a tema tahitiano in Europa, richiamando la sua grande
memoria per i dettagli dei paesaggi, delle persone e degli oggetti, così come
poteva dipingere un quadro di natura primitiva europea stando lontano dall’Europa. In mostra anche il favoloso Album Volpini, una collazione di zincografie stampate su carta gialla che da sola vale la visita della mostra. Essa infatti rappresenta un catalogo quasi completo di tutte le ultime opere di Gauguin, più altre create per l'occasione.
La mostra, che si chiuderà domenica, è inserita in un ciclo dedicato ad artisti che si sono, nella loro arte, dedicati al primitivo, e sarà quindi seguita in marzo da Joan Mirò. La forza della Materia. Mirò, legato fortemente al surrealismo e alle influenze che gli artisti di questa corrente esercitarono su di lui negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, è accomunato a Gauguin dalla continua ricerca e sperimentazione sui materiali e sulle tecniche innovative, con l’intento di infrangere i canoni stereotipici dell’arte per spingersi alle fonti più pure dell’arte stessa.
Mirò voleva ritrarre la natura come sarebbe stata dipinta da una persona primitiva, o da un bambino equipaggiati con l’intelligenza di un adulto del ventesimo secolo.
Lo accomuna a Gauguin non solo la sperimentazione continua di materiali e tecniche, l’attività da artista a tutto tondo che non lo limitò alla pittura, ma fece sì che si interessasse anche alla scultura, ai costume per balletti, alle pitture murali; ma anche il simbolismo inserito nelle sue opere: laddove Gaguguin spesso inseriva, per esempio nei suoi dipinti tahitiani, idoli e simboli delle realtà locali, come i Tiki delle Isole Marchesi, Mirò affolla le sue opere di simboli del cosmo e degli elementi, per esprimere la felice collaborazione di tutto quanto è creativo al mondo. Anche Mirò si cimentò con le produzioni ceramiche. La grande differenza fra i due artisti è nel fatto che Gauguin visse e morì in povertà, poiché durante la sua vita divisa fra Europa e Polinesia non conobbe molto successo artistico e professionale, mentre Mirò conobbe il successo, soprattutto nel secondo dopoguerra, e la sua fama gli aprì non solo le porte di mostre personali a livello internazionale, bensì anche a lavori da parte di committenze pubbliche (ad esempio i due muri di ceramica dell’UNESCO a Parigi del 1958) e private (ad esempio gli affreschi per l’hotel Terrace Hilton di Cincinnati, Ohio, del 1947).
Dopo una breve pausa dal termine della mostra di Gauguin, si potrà dunque proseguire il percorso di conoscenza con la mostra dedicata a Mirò, a partire dal 25 marzo prossimo.