La cultura del ciclismo? Bisogna passare da Pantani

Esiste una letteratura che non passi da Hemingway? No, e allora Hemingway lo accetti tutto, nelle luci e nelle presunte ombre. E’ così anche per il ciclismo, che non esiterebbe senza le storie scritte da Marco Pantani, un poeta che ha segnato il cuore dei tifosi . Oggi sono 13 anni che se ne è andato. 13 anni più poveri per il ciclismo.

Le culture sono determinate essenzialmente dai segni dell’uomo che segnano il futuro.

Nello sport, quasi vent’anni dopo le sue ultime gesta, non esiste un ciclismo che non si misuri con i "segni" di Marco Pantani.

Insomma, al di là della pubblica giustizia e delle retoriche razionalistiche ma mai oggettive dell’antidoping, nel cuore degli uomini del ciclismo, Marco è vivo ed è... il ciclismo. Perchè, guarda caso, anche i campioni che il pubblico ama oggi, hanno sulla bicicletta l’a forza imperfetta che potrebbe rispecchiare quella di Marco: la capacità di sorprendere,  vincere o perdere  immaginando e soffrendo. Sono fatti di questo respiro agonistico Contador, Nibali, e fra i giovani italiani Fabio Aru, non robot scientifici ma uomini capaci di arrivare in fondo al coraggio pur di trovare la forza per vincere Così facendo, a volte possono perdere ma questo, nel ciclismo che rimane, non importa….

Così, per il segno di Marco Pantani,  non conta il tempo, non conta la morte nella stanza da mare d’inverno e in fondo neanche che qualcuno, finalmente, spieghi a suo favore le incongruenze di quegli anni

Le leggende hanno  un sapore forte. Autentico. Una verità assoluta. La loro. Quello che la fiction che oggi chiamiamo sport, non riesce quasi mai a dare.

Marco Pantani nella cultura del ciclismo è rimasto. Rimane. Rimarrà.

E non perché vinceva. L’immagine di Pantani non è mai stato il trionfo. Anche in quel giorno a Cesenatico, lui con il pizzetto giallo davanti a decine di migliaia di persone, non ha dato il sapore di un entusiasmo pieno, sguaiato, da grande fratello. Festeggiava fra stupore e incertezza, con l’espressione timida di uno che sa che le cose possono cambiare in fretta. Prendere una strada diversa. Una gioia, diversa.

Guccini dice che gli eroi restano sempre giovani e belli. Boh, chissà che roba sono gli eroi... A restare sempre giovani e belli sono gli uomini, quando sono veri.. Giovani e belli, come una delle immagini che abbiamo nel cuore di Marco Pantani, quando riscrisse la storia dei Tour moderni: “Lui con le braccia aperte e l’espressione di chi ha speso tutto, anche parte di quella carne che lo ha tenuto attaccato alla bicicletta. E in quella fatica, lo sguardo di Marco per la prima volta è andato lontano, verso l’azzurro del cielo…”.

Forse, per Marco, e il ciclismo, le cose cominciarono a cambiare da quel giorno. Da quelle braccia aperte, da quel sorriso troppo timido. Dall’uomo che scelse di tornare a Cesenatico invece che restare sui Campi Elisi.

Le cose da lì cominciarono a cambiare, perché il ciclismo viveva già del budget delle multinazionali, che non possono accettare un eroe antisistema, fallibile e fantasioso.

Venne Madonna di Campiglio e dopo, di Marco, giusto qualche immagine sgranata, abbagliante e crudele. Come le tappe in cui lui combatteva contro l’americano. Il Tour quei due in lotta li presentava così, allora: lui, il sospetto colpevole, l’altro, l’eroe.


Eppure, anche allora, la cultura de ciclismo era Marco, solo, contro un'ingiustizia che non poteva accettare. Pantani era l'Italia del pedale vera. Provincia, trattoria, fisarmonica, romagna, era qualcosa e non tutto, per questo era fragile. In quegli anni l’americano stravinse, umiliò “l’elefantino”. Il tour, Armstrong, la stampa, stettero con la potenza illimitata del Cow Boy, come si sceglie di stare con la certezza della ricchezza, e mai con il dubbio. Allora scelsero così.

Adesso Marco è in ogni stilla del ciclismo, il resto di allora, no.

E’ sull’asfalto, negli striscioni, nel cuore della gente, gente  che siamo... noi.  Quelli che davanti a Marco che scattava abbiamo sentito vivi ancora i racconti dei nonni che non avevamo più. Che davanti all’italiano che fermava la locomotiva tedesca, abbiamo imparato ancora cosa vuol dire essere fuoriclasse senza sembrarlo, essere coraggiosi e poter dire sottovoce che noi Italiani siamo grandi, nonostante tutto.

 Noi, che un ciclismo senza Marco, con lui di là e il resto di qua, non possiamo concepirlo. E questo fa la cultura condivisa del ciclismo. Il sentimento comune. Una cultura  vera. E non scientifica…

3 commenti

luigi profeta :
Bellissimo articolo, Pantani, un ciclista, un uomo esempio di lealtà per molti giovani | martedì 14 febbraio 2017 12:00 Rispondi
luigi profeta :
Oggi è già la terza volta che leggo e rileggo questo meraviglioso articolo, che entra nel profondo, nell'animo di chi ha sofferto in bicicletta, sotto l'acqua, sotto il sole, mangiando panini pieni di terra............ | martedì 14 febbraio 2017 12:00 Rispondi
Donatella Sarchini :
Bellissimo articolo, che tocca le corde più vibranti del sentimento sportivo, quello vero. Più che i numeri da record, di Marco Pantani io ricordo pricipalmente lo sguardo, il sorriso, l'esultanza sincera e vitale di quando raggiungeva la sua meta. Perché un vero campione è sempre in gara con sé stesso, più che con gli altri. È colui che desidera sempre andare oltre, pur nel rispetto delle regole. Purtroppo il mondo sa essere ingiusto e crudele, fino a distruggere la vita di un uomo che ha sempre sudato e meritato alla grande le proprie vittorie. Ma tutti noi che lo abbbiamo sempre ammirato per quello che veramente è stato, ossia uno sportivo per passione, non ci lasciamo influenzare dalla macchina del fango, e di Marco Pantani ricordiamo soprattutto l'essenza, quella che il lato oscuro del mondo sportivo ha cercato di annullare senza riuscirci. | martedì 14 febbraio 2017 12:00 Rispondi
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