Fignon, il professore che ha meritato una via

La notizia viene dalla Francia. Hanno intitolato la via che porta al velodromo di San Quentin, vicino a Parigi, a Laurent. Lo chiamavano professore. La sua è la storia di un ciclismo in evoluzione, fra luci e ombre, prossimo a diventare “scientifico”.

Parigi, il ciclismo francese, non dimenticano e  così a Fignon, che se ne è andato qualche anno fa, quando era ancora abbastanza giovane per fare l’eterno ex, invecchiato e bolso, hanno dedicato una via.

Chi era Laurent? Nel mondo dei due pedali era da sempre chiamato il professore, soprannome assai insolito per un pedalatore. I ciclisti sono capaci di scrivere storie, favole, al limite leggende o vita, ma mai, assolutamente mai, verità tanto assolute da entrare nelle aule scolastiche. Eppure a Fignon era stato affibbiato quel soprannome ingombrante, professore accanto ad un altro ancora più impegnativo: filosofo.

 

Forse Mignon, aveva rappresentato il sessantotto del ciclismo, molti anni dopo, troppi probabilmente. In realtà, facevano più l’aspetto, delle idee, di Laurent, immerso in un ciclismo che cominciava a diventare “scientifico”, fatto chimico da professori veri.

Professore. Filosofo. Titoli altisonanti che venivano da impressioni. Innanzitutto, era nato a Parigi. Un ciclista metropolitano, anomalo in uno sport in cui i campioni sono prodotti caserecci  di provincia, e poi Laurent sembrava un professorino anche per quell’aspetto fisico da quartiere latino: capelli biondi sottili e occhialini tondi. Un ritratto che a vederlo fa immaginare una giacca di velluto con pezze snob sui gomiti e libri sotto il braccio, mica una maglietta colorata, pantaloncini attillati e una bicicletta.

 

Il professore e  il filosofo del ciclismo, assieme, ci hanno poi lasciato presto, dopo una cronometro finale persa contro il cancro che aveva preso il suo stomaco, male a cui aveva detto di non voler dar tregua ma purtroppo, alla fine, la grinta non è bastata.

Se si deve perdere si perde. Tutto lì.

Comunque, se la filosofia è l’indagine sulla esistenza umana, le sconfitte di Fignon sono un altro senso del suo soprannome. Chissà perché di Laurent vengono, più che i trionfi che pure ci sono stati, le immagini di quando ha perso. L’espressione pegata da labbra amare di tutte le volte che ha allungato il collo ma, lo stesso, non è riuscito ad arrivare primo.

Fignon è stato protagonista e volto degli anni ottanta, illusione di una società matura e pompata artificialmente che i suoi occhialini tondi inquadrarono appieno, basta ricordare l’irruenza con cui sconfisse al Tour un Hinault.

 

Laurent non era ciclista per vocazione. Uno sportivo nato sì, tanto che i suoi primi sedici anni avevano visto pochi libri e molto agonismo. Aveva provato di tutto, ogni cimento ed ogni tipo di pallone, perché sentiva la voglia di vincere, ignorando, come fanno tutti i ragazzi, che l’altra parte della medaglia è la sconfitta. La bicicletta era arrivata tardi, nella piena adolescenza, ma il suo talento si era sprigionato subito,  tanto che bastarono pochi anni per portarlo al professionismo. Tutti lo aspettavano, e infatti nel 1983 quel ventitreenne dall’aspetto insolito prese la maglia gialla del Tour sull’Alpe D’Huez, cima giusta per incominciare una grande carriera, e se la tenne fino a Parigi.

La Francia ciclistica allora era ancorata ad un mostro sacro, una icona, Hinault, il bretone che pure quell’anno, afflitto da una tendinite, sembrava ormai aver imboccato il viale del tramonto.

No, non era finito Bernard. Comunque Laurent anche l’anno dopo, era il 1984, gli vinse in faccia il Tour con una durezza ed una imperiosità inaudita, esagerata quasi. Poi, però, qualcosa cambiò. La prepotenza divenne sfumatura, dubbio.

Laurent e il peso delle sue sconfitte, dicevamo. Beh, proprio il 1984 dà un primo spaccato di lite con un destino. Sarebbe stato l’anno giusto per entrare nel novero dei grandi, il club di quelli della doppietta Giro e Tour, perché in Italia Laurent c’era ed avrebbe potuto vincere, se non fosse che si trovò contro una intera nazione protesa a difendere Francesco Moser.

 

Il trentino, si sa, era un treno a vapore inarrestabile quando l’asfalto andava dritto, ma pesante come un paracarro se la strada si impennava. Le altimetrie della edizione del 1984 del Giro, ben “pilotate”, di sicuro non erano hymalaiane e inoltre le volte che Laurent attaccava si trovava contro un gruppo per buona parte proteso a difendere il passista italiano. In più, al passivo di Fignon, bisogna aggiungerci la cancellazione per inagibilità dello Stelvio, impennata che per Francesco non sarebbe stata un rosolio. Ma Laurent, grande cronomen, nell’ultima tappa il Giro sarebbe stato in grado di giocarselo lo stesso, quella Soave-Verona rimasta famosa per un elicottero televisivo che lo perseguitò con il suo fiato ingombrante dall’inizio alla fine. In realtà gli alleati veri di Moser, quel giorno, non furono le telecamere volanti, le pale e lo spostamento d’aria bensì le ruote lenticolari che facevano comparsa nel panorama tecnico  e che garantirono al trentino gli istanti in meno che vollero dire maglia rosa.

 

Sarà che la tecnologia c’entra poco con la filosofia, ma l’evoluzione tecnica a Laurent costò anche il Tour dell’89, perso per otto secondi, qualche centimetro d’asfalto degli Champs Elisee.

Fignon alla partenza dell’ultima tappa con arrivo sotto la Tour Eiffel aveva 50 secondi di vantaggio su Greg Lemond. Certamente, fossero partiti alla pari, sarebbero bastati, ma già dalle prime pedalate si capì che per il francese la questione si stava facendo complessa. L’americano, quel giorno, era perfetto. Lui e la macchina erano un tutt’uno splendido, composto, efficace, potente, inesorabile. Lemond usava il manubrio a corna di bue, e quell’aggeggio dall’aspetto americano fu a Parigi  ciò che le ruote lenticolari erano state a Verona. Un cazzotto da k.o tecnico.

Si può perdere una corsa di migliaia di chilometri per 8 secondi? Per qualche piega dell’universo, quel giorno accadde, e la vittima fu Laurent Fignon.

Altro addio alla possibile doppietta dei leggendari, dunque, per Fignon, che in quella primavera era riuscito finalmente a vincere il Giro. Così, Laurent sarà per sempre una immagine di campione di mezzo. Non quelli che fanno la storia ma quelli che eternamente navigheranno sul confine fra relativo e assoluto. Il francese chiuse la sua carriera correndo alla soglia degli anni novanta con Gianni Bugno. Avrebbe dovuto essere il consigliere, il luogotenente del monzese, ma non ci riuscì granchè, il mondo del ciclismo stava cambiando un’altra volta, e lui era stato preso in mezzo.

“Eravamo giovani e spensierati“ è il titolo del suo libro. Suona come una giustificazione. Su quelle righe Laurent comunicò al mondo, per la prima volta, la diagnosi di un cancro avanzato. E raccontò che l’essere giovani e spensierati nel ciclismo anni ottanta includeva prendere anfetamine, cortisone e altri additivi chimici  a profusione. Facevamo tutti così, disse.

 

E subito, fra i tutti che ancora contano, si è sollevato un nugolo di smentite, prese di distanza, precisazioni. Il solito ambiguo dilemma. Come fosse credibile che a mischiarsi sulle stesse strade possano essere le sostanze di due ciclismi diversi. Uno pulito. Uno no. In  conferenza stampa fu chiesto a Fignon se potesse esserci un nesso fra quelle pratiche “giovani e spensierate” e la macchia grigia che si ritrovava nel corpo.

Scosse il capo. “Allora dovrebbero essere ammalati di cancro tutti i ciclisti di quell’epoca. Così non è, mi pare.”

Fignon aveva continuato il ciclismo nelle vesti di commentatore televisivo e radiofonico. Ci azzeccava dimostrando che in fondo almeno alla fine nel suo mondo si era meritato il soprannome che gli era stato assegnato. Professore.

Giovani e spensierati... Chissà se ne è valsa la pena, esserlo, per quella e tutte le altre generazioni ciclistiche. Fignon e gli altri, quelli altrettanto giovani e  spensierati, che dopo la parabola di Laurent probabilmente stanno convivendo con una paura. Ne è valsa e ne vale la pena? Solo loro, possono dare la risposta.

Fignon è stato parte della storia del ciclismo. Se ne era andato a 50 anni. E a contarli, 50 anni, paiono davvero pochi. Adesso cominciano a dedicargli delle vie. In Francia, si capisce. Là sanno ricordare… 

1 commenti

luigi profeta :
Quelli di Fignon, furono i tempi in cui io correvo in bicicletta, spinto dall'entusiasmo di giovane tredicenne, senza paura di faticare. Hinault era un grandissimo campione, era il mio mito vivo, perché in realtà i miei miti erano Coppi Bartali, e mio papà che fece il recod dei 100 km al vigorelli di Milano, ma lui era un campione come i campioni di altri tempi, tempi dove le maglie erano di lana, e se pioveva, ti portavi sulle spalle 2 kg in più. Poi quando arrivò Fignon, qualcosa cambiò iniziarono i giorni delle modifiche tecniche, si cominciò a vedere il manubrio a "corna di bue" o le ruote "Lenticolari". Fignon non mi era tanto simpatico, perché superava e batteva il mio mito; Hinault! Poi un giorno arrivò Greg Lemond, Americano, simpatico e fortissimo. Ricordo il giorno in cui vinse il tour de France battendo proprio Fignon, per 8 secondi, quel giorno capì chi era veramente Fignon, un campione come pochi il ciclismo ha avuto, umile. quel giorno tenevo per Greg Lemond, ma quando giunse al traguardo, un po di rabbia l'ho avuta, tutti quei sacrifici, tutta quella fatica, cancellati in 8 secondi, da quel giorno Fignon mi sembrò più simpatico, ora avevo tre campioni da ammirare. | venerdì 28 ottobre 2016 12:00 Rispondi
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