Serse; un eroe negativo?
Un palco, una tribuna, una manciata di attori e il gioco è fatto. Un gioco “magico”, fatto di emozioni e fantasia, fantasia, che in accordo con lo spettatore, diviene realtà. E quando la realtà diventa vita, la vita diventa allora uno spettacolo osservabile.
Il teatro, del resto come il cinema, è uno strumento formidabile, che proietta mondi lontani, passati o futuri, in uno specifico istante del presente. Si tratta di un gioco di finzione, di un accordo, che “segretamente” o per meglio dire, attraverso un tacito consenso, viene preso tra spettatore e attore; credere che ciò che si sta osservando, sia vero.
C’è poi una storia da raccontare e c’è un messaggio da
veicolare. Ultimamente e sempre più spesso accade nel cinema, il punto di vista
raccontato è quello dei “cattivi”. Personaggi amorali e dissoluti che tuttavia colpiscono il nostro cuore. Del resto se è vero che Il crimine non paga, in qualche modo affascina.
E’ successo con Public Enemy di Michael Mann, dove un
ladro gentiluomo, che si potrebbe definire un Robin Hood contemporaneo, magistralmente interpretato da Johnny
Depp, finisce con l’affascinarci. Nuovamente, è successo con “L’opera da tre soldi” di B. Brecht. Macheath,
noto criminale di una cupa Londra vittoriana, salvato in extremis dall’impiccagione,
diventa, in una parodia a lieto fine, baronetto per concessione della Regina
stessa.
Insomma, quello che guardiamo, quello che analizziamo e che
affascina è il lato meramente umano di questi personaggi, che inteso
in modo ossimorico, lo si potrebbe definire cattivo ma buono.
Eschilo, noto tragediografo greco che nel 472 a.C. scrive I Persiani (testo dall’importanza
storica fondamentale, poiché è da qui che parte la nostra conoscenza empirica
del teatro greco classico), pare che questo sinistro fascino, lo avesse già
inteso.
In quest’opera, infatti, il punto di vista adottato è quello
dei vinti, ossia dei Persiani, acerrimi nemici dei Greci, attraverso cui Eschilo
esprime il concetto di hybris,
ossia di tracotanza. Concetto ricorrente, nell’opera eschilea.
L’opera comincia con una forte tensione, resa sempre più
esplicita, dall’attesa che attanaglia Atossa, madre di Serse, e i dignitari di
corte, che attendono con ansia, notizie sull’esito della battaglia di Salamina.
Quando il messo sopraggiunge e annuncia la disfatta, ecco che il coro si lascia
andare a strazi e lamenti.
Ciò che in un primo momento, potrebbe suscitare empatia nei
confronti di Atossa e di Serse, in verità viene usato da Eschilo come pesante
critica e come emblema della sua morale. I Greci, infatti, non potevano
accettare di essere dominati da un popolo barbaro e opulento, che soggiogava i
propri sudditi. Non potevano, prima di tutto, accettare la sudditanza.
Serse, nel voler sfidare la sorte, ha peccato di hybris, di
arroganza e superbia, sottovalutando l’avversario e sfidando il volere degli
dei. Serse, per questo peccato, viene dunque accecato da Ate, il dio che gli ha tolto il senno e reso irreversibile la sua
colpa. Le conseguenze saranno drammatiche: Quando egli farà rientro a Susa, presso
il palazzo reale, sarà allora, che con le vesti lacere, tra grida e lamenti,
ammetterà di esser stato la rovina per la sua stirpe e per il suo popolo. Non c’è
dunque nessuna forma di comprensione, non c’è scusante alcuna ma, solamente
disdegno.
L’analisi di Eschilo, infatti, non è e non può essere
bonaria. Non vuole celebrare un “eroe negativo”, non vuole far vedere il suo
aspetto più umano e “romantico”. Quello che Eschilo fa, è far vedere il male,
per poter insegnare il bene. Quello che Eschilo fa, è celebrare la grandezza di
Atene e il lustro della sua vittoria, rincarando sul dolore del nemico vinto.
Tuttavia, ad analizzare bene la sua figura, potrebbe
sembrare un Serse che alla fine si redime, capisce i suoi errori e chiede
venia. La giustizia, però, non perdona. Serse porterà il fardello della
disfatta per il resto dei suoi giorni. Non resta che allo spettatore,
patteggiare per la sua sorte.