Munch: uno sguardo oltre le cose

Affermazione lapalissiana: è più semplice guardare ciò che accade davanti agli occhi piuttosto che descrivere ciò che sta dietro. E se questo è arduo per la vita di tutti i giorni, per noi che dobbiamo misurarci solo con il quotidiano, figuriamoci con gli artisti che hanno come campo di gara la rappresentazione dell’esistenza.

Se consideri la loro opera (l’evento) e la visione che l’ha partorita (il talento personale) ti accorgi spesso che le condizioni della vita avrebbero dovuto portarli a manifestazioni ben diverse da quello che hanno prodotto. Sì, dopo, l’opera viene spiegata dalla critica e dai biografi dell’artista con una psiche particolare, determinata da un legame affettivo improvvisamente reciso o un rapporto mancato con chi se ne è andato troppo presto, o troppo tardi e con tutte le variabili misteriose e un po’ comode racchiuse nella parola sensibilità, ma sono giustificazioni a posteriori, perché il dato dice che quell’uomo lì, cresciuto così, con quei genitori lì, non avrebbe, rispetto ad altri, le condizioni oggettive per dipingere paesaggi emotivi di un certo tipo.

Facciamo un esempio: Edward Munch, artista straordinario che tutti spesso banalizzano con “L’urlo” ma che con la sua carriera rappresentò perfettamente il tono cupo dell’epoca capitalistica. Munch nasce in Norvegia, a Leten, nel 1863 ma appena dopo un anno si trasferisce a Christiania, l’attuale Oslo. La scandinavia di metà ottocento, terra ben lontana dalle esagerazioni industriali che stavano violentando l’altra parte del continente, paesaggio vergine fatto per buona parte dal bianco della neve, e per l’altra parte dallo smeraldo di foreste incontaminate.
Il padre di Edward Munch è medico militare che viene da famiglia benestante, il che consente ai suoi cinque figli una vita più che dignitosa nonostante la morte della madre quando il figlio ha solo 4 anni. Nell’educazione dei figli, il posto della madre viene preso dalla sorella di lei, appassionata di storia dell’arte, che trasmetterà giocosamente la passione ai nipoti. Edward si dimostrerà da subito straordinariamente portato alla pittura, tanto da scegliere i colori e la tela come espressione. Ha quattordici anni quando sua sorella Sophie, con cui ha stretto un solidissimo rapporto affettivo, muore di tisi. Un momento tragico, ma va inserito in una mortalità assolutamente in linea con gli standard dell’epoca. Eppure…
“Una sera passeggiavo per un sentiero, da una parte stava la città, e sotto il fiordo. Il sole stava tramontando. Le nuvole erano dipinte di un rosso sangue. Sentii un urlo attraversare la natura. Dipinsi le nuvole come sangue vero. I colori stavano urlando.”
Nel 1893 Edward Munch dipingerà “Morte nella stanza della malata” e nel 1896 “La bambina malata”, evidenti riferimenti alla scomparsa della sorella. Una esperienza che aveva trasfigurato la sua visione della vita. E’ così, per spiegare Munch non servono i dati della nascita e della infanzia, ci vogliono quelli di un genio capace di una capacità di lettura unica.. “Dipingo non quello che vedo, ma quello che ho visto”. Munch, semplicemente, dipinse l’epoca in cui viveva, che chiunque avrebbe potuto vedere se solo avesse avuto la capacità di farlo. A Munch bastò respirare, gli altri ebbero bisogno di toccare. Brutta dote quella di saper esprimere una realtà prima degli altri. Perché poi diventi l’anomalo, il bersaglio. Così, a cavallo del novecento, epoca in cui miseria, malattia, decadenza erano il paesaggio cupo di qualsiasi sobborgo metropolitano, l’arte di Munch fu considerata maledetta, decadente, malata. Dentro l’illusione, questa sì decadente, della Bell’Epoque, i colori esagerati di Edward Munch, le forme contorte, le espressioni malate mettevano disagio, davano orrore anche se semplicemente erano specchio del tempo. Solo nel 1914 il talento di Munch fu riconosciuto pienamente nella sua patria, quando vinse il concorso per la decorazione dell’aula magna dell’università di Christiania.

1914, il mondo d’ombre era davanti agli occhi di tutti, un società spaventata da una striscia di venti milioni di morti fra il Mare del Nord e l’Adriatico chiamata trincea. Una rivincita?
Nel 1916, in mezzo alla “inutile strage”, Munch dipingerà uno dei suoi quadri più “lievi”: “De Ensomme” Dentro la cornice, cogli una fanciulla, un uomo, e tinte dolci, stese a disegnare un mondo sconosciuto. Rappresentano l’attimo di pace di un artista tormentato, respirato dentro un  universo e una società in guerra. Probabilmente l’anima di Munch aveva già dato, adesso poteva placarsi. Il ridicolo però è che, ancora, Munch pagherà. Sarà nel dopoguerra, davanti ad un nazismo che tornerà a bollare le sue opere, come degenerate. Già, degenerate. Allora si parlava di razza. Come anche l’uomo potesse essere selezionato da una qualche forma di genealogia. Ma per fortuna, con la storia e la grandezza dell’arte, e con la cultura, le genealogie hanno sempre funzionato poco.
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