Milano 1946: la rinascita della cultura
Milano 1946. Bombardata, un centro distrutto. Una città affamata ed in ginocchio, eppure, dei pazzi, pensarono per prima cosa, a costruire un luogo letterario...
Immaginatevi la Milano del ’46, una città in ginocchio, distrutta per oltre la metà, che ad ogni giornata senza pioggia ancora respirava la polvere delle macerie come l’odore di una tragedia.
Una Scala, un Arcivescovado, una Galleria ancora in ginocchio, simulacri di una città ancora per buona parte affamata, pesta, disoccupata e misera. Eppure…
“Ai promotori dell’iniziativa, è apparso prima di tutto opportuno offrire come degna sede ai futuri dibattiti e a tutte le altre manifestazioni culturali un aristrocratico palazzo nel centro di Milano, confortato da un buon ristorante e da un elegante servizio di bar… Milano, 1946.”
Alcuni dei promotori: Raffaele Mattioli (presidente della
banca commerciale), Mario Borsa
(direttore Corriere della Sera),
Alberto Mondadori, Ernesto Nathan Rogers (costruttore della Torre
Velasca), Giulio Einaudi, Elio Vittorini.
Una libreria a piano cortile, un bar con poltrone di pelle a delimitare angoli di conversazione, l’elegante ristorante e poi tre stanze per gli incontri, capienti, sempre a disposizione di associazioni, gruppi culturali o politici, manifesti artistici, questa era la “Casa della Cultura” di Via Filodrammatici, appena oltre i ponteggi del palco della Scala, non ancora in ricostruzione. Cosa fosse, perché si pensò di illustrarla in un depliant non solo come manifesto di pensiero ma anche ritrovo conviviale, cosa si volesse rapresentare, è evidente, anche se un po’ avvilente per un’epoca come questa in cui gli spazi per la cultura vengono ben dopo le balere o i circoli per la briscola.
La casa della cultura, un luogo fisico, accogliente, dove finalmente si ricominciasse a pensare, asciugandosi le lacrime. Chiamiamolo, se vogliamo, speranza ma, innanzitutto, buona volontà e ancor più, iniziativa dell’intelligenza.
E pensiamolo, essenzialmete, spazio, luogo, agorà democratico, da offrire indistintamente a tutti, nella consapevolezza che una crescita culturale fosse madre di una crescita economica, non viceversa. Elio Vittorini, di quei tempi, magari proprio davanti ai piatti del “buon ristorante”, o ai mille caffè del’elegante bar, faceva respirare il Politecnico, la sua rivista, della stessa libertà che lo porterà a scontrarsi con Togliatti. Voleva la fine della cultura consolatoria, Vittorini, nella speranza che finalmente il pensiero potesse offrire soluzione, non sospiri. Mah…
Comunque, per quell’Italia, le stanze di via Filodraammatici non furono un unicum. Anzi si può dire che ogni ambiente cattolico, di partito, ogni osteria, ogni aula scolastica allora ebbero la sostanza di essere “casa di un piacere culturale”.
Inutile ricordare che in breve, dentro quel clima, Milano (come l’Italia), si rialzarono in piedi. E lo spirito fu lo stesso della Associazione di Via Filodrammatici che citiamo qua sopra.
C’è da chiedersi se a ricostruzione dell’Italia sarebbe stata così perfetta e vincente se accanto a quelli di mattoni e cemento, non fossero sorti i tanti altri cantieri (o meglio, per stare con l’artigianato, botteghe) di volontà e ricerca che furono il piacere di fare associazione, di fare pensiero, di fare discussione, di fare rivista, di fare giornale, di fare letteratura, di fare editoria. Insomma di intraprendere investendo anche sul pensiero, e l’intelligenza. No, la risposta è banale, l’Italia non sarebbe stata lo stesso miracolo.
Anche oggi dovremo ricostruire, e quanto…
Da dove cominceremo? Dalla cultura? Sia mai!