Una metafora della cultura? Il calcio
Cultura è voglia di consapevolezza, desiderio di scoperta ed elaborazione, desiderio di arrivare altrove con i nostri occhi, pensieri e cuore: un po' più in alto, e un po' più dentro di noi. Ora, cosa c'entra la cultura con la ripresa economica, il cuore e e con il calcio? C'entra, eccome se c'entra...
Per definire la cultura, basta il verso di una canzone di Guccini:: "Immagina questo coperto di grano,immagina i frutti e immagina i fiori e pensa alle voci e pensa ai colori, e in questa pianura, fin dove si perde, crescevano gli alberi e tutto era verde, cadeva la pioggia, segnavano i soli, il ritmo dell' uomo e delle stagioni..."
Insomma, alla fine, anche buttando a mare tutto quello che si intende per “sapere”: i libri, i musei, i dotti e i sapienti, le citazioni elevate e pallose, le corazzate Potemkin intese come imposizione, la cultura è essenzialmente la sensazione di qualcosa che è nascosto alla realtà quotidiana del sopravvivere. E, cultura, è anche la curiosità di cercare quel “di più” che si può scorgere alzando un po’ lo sguardo dal marciapiede che ogni giorno percorriamo. Insomma, cultura è voglia di consapevolezza, desiderio di scoperta ed elaborazione, desiderio di arrivare altrove con i nostri occhi, pensieri e cuore. E' bisogno di crescere.
Ebbene, dalla palude di questa crisi si esce soltanto se si cresce. E nella storia l’umanità non è mai cresciuta se ad una economia in espansione non si è affiancata una crescita culturale di tutti gli strati della società. Tutte le altre strade, anche tecniche, anche straordinariamente professorali, anche magnificamente “germaniche”, sono vicoli ciechi che da soli non possono portare da nessuna parte.
Attenzione però. Come campi di crescita culturale possibile e auspicabile, se non indispensabile, non intendiamo solo le scuole, le biblioteche, i discorsi di quelli che non sbagliano a coniugare i verbi ma anche la tv, il cinema, la cultura di come ci si veste, la cultura di quello che si mangia e anche dello sport e in particolare del calcio,. visti i fatturati che muove e il tempo che riempie in ogni mezzo di comunicazione. Prendiamo dunque quest’ultimo: il caro gioco del pallone, ma la parafrasi vale per tutti gli altri settori della società.
Come possiamo crescere? Beh, innanzitutto ridefinendo cosa è “calcio”, e cosa non lo è.
Le radici della sua passione. Anche volessimo limitarla al “tifo” di una squadra, scopriremmo che essa è essenzialmente un legame a dei colori, ad una storia sportiva e ad una memoria che si intreccia alla nostra. Noi amiamo una squadra perchè in essa ritroviamo noi stessi. Non perché vince. O perde. Insomma, conta il cuore. E il resto dunque? Il resto vale zero. Chiacchiera. Insomma, il vincere e il perdere, per la passione del calcio, non conta nulla, è relativo. Lo dimostrano civiltà (e mercati) sportivi ben più avanti dei nostro, come quelli inglesi, in cui una curva può salutare con canti di vittoria la squadra anche nel giorno della retrocessione perché si è battuta come doveva. Dunque l’essenziale, nel calcio (e nal resto di mondo non sportivo) è la percezione della propria identità. Tutto quello che il vecchio di Guccini descrive all’immaginazione del bambino, i fiori, i colori, la storia, e il futuro. Quello che per il bambino sono fiabe. Bisognerebbe solo ridonargli la realtà di esse.
I rimedi? Restando ancora al calcio, ma come detto la cosa vale per tutto, pensiamo quanto un calcio ripulito dalle chiacchiere televisive e dal marketing dei grandi numeri, ridarebbe alla società. Innanzitutto, la voglia di tornare a parlare fra di noi, di calcio. Di trovarci. Di socializzare. Di riempire le piazze, trovare punti di aggregazione. E questo vorrebbe dire ridarci la capacità di elaborare, non essere passivi ascoltatori delle buffonate dei “tifosi a gettone di presenza”.
E poi ,pensiamo cosa ridarebbe al tessuto economico delle città un campionato giocato in un giorno solo, in un ora sola, come un tempo. Quanta piccola e grande economia locale (anche della comunicazione) si rivitalizzerebbe… Già, ne soffrirebbero i grandi budget della tv (unica) e dei grandi club (anche se riacquisterebbero il valore non solo numerico di uno stadio pieno). Ma sicuri che la società intesa come popolazione, e anche la comunicazione (intesa come piccola impresa) ridando energie ai piccoli, non ne guadagnerebbero e non crescerebbero economicamente?
E se questo concetto di rivoluzione possibile dai grandi ai piccoli vale per il calcio, tarati i dovuti paramentri, vale per tutto. Per l’economia, per l’artigianato, per il commercio.
Lo so. Un mondo che ripartirebbe dalle passioni autentiche dei piccoli togliendo ai grandi potentati, oggi parrebbe un’utopia. E così alla fine, ci si può trovare con l’animo del vecchio che dovendo parlare di cultura dice al bambino: immagina…. già sapendo però che chi ti ascolta non sa di cosa stai parlando, e ti risponderà: mi piacciono le fiabe, raccontane altre…
Però, però, se immaginassimo che tutto ciò che ci circonda, dopo questa crisi, non sarà così scontato?
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Insomma, alla fine, anche buttando a mare tutto quello che si intende per “sapere”: i libri, i musei, i dotti e i sapienti, le citazioni elevate e pallose, le corazzate Potemkin intese come imposizione, la cultura è essenzialmente la sensazione di qualcosa che è nascosto alla realtà quotidiana del sopravvivere. E, cultura, è anche la curiosità di cercare quel “di più” che si può scorgere alzando un po’ lo sguardo dal marciapiede che ogni giorno percorriamo. Insomma, cultura è voglia di consapevolezza, desiderio di scoperta ed elaborazione, desiderio di arrivare altrove con i nostri occhi, pensieri e cuore. E' bisogno di crescere.
Ebbene, dalla palude di questa crisi si esce soltanto se si cresce. E nella storia l’umanità non è mai cresciuta se ad una economia in espansione non si è affiancata una crescita culturale di tutti gli strati della società. Tutte le altre strade, anche tecniche, anche straordinariamente professorali, anche magnificamente “germaniche”, sono vicoli ciechi che da soli non possono portare da nessuna parte.
Attenzione però. Come campi di crescita culturale possibile e auspicabile, se non indispensabile, non intendiamo solo le scuole, le biblioteche, i discorsi di quelli che non sbagliano a coniugare i verbi ma anche la tv, il cinema, la cultura di come ci si veste, la cultura di quello che si mangia e anche dello sport e in particolare del calcio,. visti i fatturati che muove e il tempo che riempie in ogni mezzo di comunicazione. Prendiamo dunque quest’ultimo: il caro gioco del pallone, ma la parafrasi vale per tutti gli altri settori della società.
Come possiamo crescere? Beh, innanzitutto ridefinendo cosa è “calcio”, e cosa non lo è.
Le radici della sua passione. Anche volessimo limitarla al “tifo” di una squadra, scopriremmo che essa è essenzialmente un legame a dei colori, ad una storia sportiva e ad una memoria che si intreccia alla nostra. Noi amiamo una squadra perchè in essa ritroviamo noi stessi. Non perché vince. O perde. Insomma, conta il cuore. E il resto dunque? Il resto vale zero. Chiacchiera. Insomma, il vincere e il perdere, per la passione del calcio, non conta nulla, è relativo. Lo dimostrano civiltà (e mercati) sportivi ben più avanti dei nostro, come quelli inglesi, in cui una curva può salutare con canti di vittoria la squadra anche nel giorno della retrocessione perché si è battuta come doveva. Dunque l’essenziale, nel calcio (e nal resto di mondo non sportivo) è la percezione della propria identità. Tutto quello che il vecchio di Guccini descrive all’immaginazione del bambino, i fiori, i colori, la storia, e il futuro. Quello che per il bambino sono fiabe. Bisognerebbe solo ridonargli la realtà di esse.
I rimedi? Restando ancora al calcio, ma come detto la cosa vale per tutto, pensiamo quanto un calcio ripulito dalle chiacchiere televisive e dal marketing dei grandi numeri, ridarebbe alla società. Innanzitutto, la voglia di tornare a parlare fra di noi, di calcio. Di trovarci. Di socializzare. Di riempire le piazze, trovare punti di aggregazione. E questo vorrebbe dire ridarci la capacità di elaborare, non essere passivi ascoltatori delle buffonate dei “tifosi a gettone di presenza”.
E poi ,pensiamo cosa ridarebbe al tessuto economico delle città un campionato giocato in un giorno solo, in un ora sola, come un tempo. Quanta piccola e grande economia locale (anche della comunicazione) si rivitalizzerebbe… Già, ne soffrirebbero i grandi budget della tv (unica) e dei grandi club (anche se riacquisterebbero il valore non solo numerico di uno stadio pieno). Ma sicuri che la società intesa come popolazione, e anche la comunicazione (intesa come piccola impresa) ridando energie ai piccoli, non ne guadagnerebbero e non crescerebbero economicamente?
E se questo concetto di rivoluzione possibile dai grandi ai piccoli vale per il calcio, tarati i dovuti paramentri, vale per tutto. Per l’economia, per l’artigianato, per il commercio.
Lo so. Un mondo che ripartirebbe dalle passioni autentiche dei piccoli togliendo ai grandi potentati, oggi parrebbe un’utopia. E così alla fine, ci si può trovare con l’animo del vecchio che dovendo parlare di cultura dice al bambino: immagina…. già sapendo però che chi ti ascolta non sa di cosa stai parlando, e ti risponderà: mi piacciono le fiabe, raccontane altre…
Però, però, se immaginassimo che tutto ciò che ci circonda, dopo questa crisi, non sarà così scontato?
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