Il Dio migliore?
La maggior parte degli equivoci, dai più innocenti a quelli che talora sfociano nella violenza, traggono origine dal dramma della torre di Babele: quando il tentativo di comunicazione umana si interrompe, e le parole che si usano hanno acquisito significati opposti alle intenzioni che ne hanno determinato l’utilizzo.
Il risultato, così, risulta essere più inconcludente e, anzi, persino più dannoso, di quello che si ottiene quando si cerca di comunicare in lingue diverse l’una dall’altra: in un caso, il significato delle singole parole e delle categorie di pensiero non viene percepito, nell’altro è distorto e perfino travisato. Ecco il presupposto primo dell’incomunicabilità e, soprattutto, dell’incomprensione. A chi non è mai successo di fare figuracce in pubblico per aver utilizzato, fra le risa generali, parole sconosciute (magari suggerite da qualche amico) per approcciarsi a qualcuno? A chi non è mai capitato di discutere sul significato intimo di una parola? L’accordo sul significato dei termini è fondamentale affinché una discussione sia utile e proficua.
Il concetto di “religione”, ad esempio, è problematico e mutevole sotto molti aspetti. Storicamente nato, nel mondo occidentale, in ambiente latino-repubblicano era inizialmente scevro da qualsiasi accezione fideistica che implicasse l’accettazione di una dottrina in cui credere: indicava, invece, un modo di rapportarsi alle pratiche cultuali con rigore e scrupolo mai eccessivi. Nel II secolo esso è stato assunto dal cristianesimo per definire se stesso e, per differenza, l’altro da sé. Da Tertulliano in poi, religio viene definita come nostra e vera in ambiente cristiano: questa appropriazione terminologica – che è tuttora implicita nel linguaggio, nella forma mentis e nella concezione occidentale – si è estesa alle analoghe manifestazioni del numinoso con cui è entrato in contatto e ha relegato il mito, le sue rappresentazioni cultuali e letterarie nello spazio del marginale e del gioco. In questo modo le ha svalutate, contrapponendole alla vera religio e alla divina littera.
Come i politeisti romani, quando erano politicamente più potenti e numericamente superiori, accusarono i cristiani di idolatria e di follia; così, poi, questi stessi vennero accusati da Tertulliano di disprezzare Dio e di essere adoratori della mera materia (come si può adorare statue di pietra, legno e ferro?). Ancora, le altre popolazioni incontrate dal cristiano occidentale vennero poi identificate, con sentimenti di presunzione e di superiorità, come pagane e adoratrici di dèi falsi e di oggetti-feticcio. Questo rapporto con gli altri, volto ad annientare e a fagocitare proselisticamente, si è rivelato essere, in ogni caso, un punto di partenza certo per la nascita dell’etnografia e dell’antropologia culturale: inizialmente altezzosa e, in seguito, paritaria o pseudo-paritaria.
Non è mai stato semplice discorrere in maniera critica e sistematica di religione: basti dire – senza ricorrere ad esempi banali – che persino Immanuel Kant, dopo la pubblicazione di La religione entro i limiti della semplice ragione fu dissuaso dalla riflessione su Dio da un’ordinanza censoria di Federico Guglielmo II di Prussia. Persino oggi il clima religioso è molto teso –per accennare solo alle tre grandi religioni monoteiste abramitiche-: ebraismo, isl?m e cristianesimo sembrano, per molti versi seppure in modo diverso, sono accesi da un fuoco di fondamentalismo – mai realmente sedato – volto alla difesa dell’identità religiosa e quindi dell’identità culturale ed anche territoriale. Quelle più intime, insomma. Come sottolinea polemicamente anche Scarpi in un capitolo de Si fa presto a dire Dio, in Israele è in corso la lotta fratricida e spesso insensata tra israeliani e palestinesi (con il complice beneplacito di un Occidente volutamente disattento); il fondamentalismo islamico, diffusosi soprattutto a partire dalla rivoluzione khomenista del 1979, è deflagrato con violenza in anni recenti, radicalizzandosi in senso anti-occidentale; la Chiesa cattolica, dal canto suo, forse dando meno dell’occhio ma certamente non in maniera meno invadente, ha iniziato una massiccia campagna di riappropriazione dello spazio pubblico e politico. Sembra quasi che la Chiesa abbia temporaneamente rinunciato alla discussione di carattere eminentemente teologico, relativa, cioè, alla teofania e alla salvezza e che cerchi di influenzare la dottrina sociale e i precetti morali appellandosi alla Verità divina del testo sacro (superiore e inoppugnabile in quanto data a priori). Può essere inteso, quindi, come un fondamentalismo violento non dal punto di vista fisico ma psicologico, in quanto presuntuosamente conscio di poter agire con la massima consapevolezza e competenza su ogni legge: volendo piegare, insomma, la supposta laicità dello Stato (soprattutto italiano) alla propria etica. Come è possibile, allora, un dialogo interreligioso utile e pacato? L’ipocrisia dell’occidente cattolico (soprattutto dopo le affermazioni di papa Benedetto XVI sulla superiorità della Chiesa di Roma rispetto all’isl?m – nella lectio magistralis tenuta a Regensburg – e la riduzione delle chiese protestanti a non-chiese – nel discorso tenuto ad Ankara – nonché con l’illusoria doppiezza mediatica di papa Francesco) e la violenza della rigidità del pensiero islamico sembrano tarpare le ali a qualunque tentativo di dialogo, anche se alcuni spiragli di luce sono ancora aperti. Uno di questi può essere individuato nella laicità come abito intellettuale e come struttura mentale in opposizione a un credo di qualsiasi natura, sia esso filosofico, ideologico o politico strictu sensu, quindi nella capacità di ragionare in modo compiutamente logico, coerente e indipendente da una qualsivoglia fede reazionaria e invasiva.
Prendendo a prestito le parole di Claudio Magris – uno dei grandi laici della tradizione italiana nel solco di Norberto Bobbio – laicità “significa tolleranza, dubbio rivolto anche alle proprie certezze, capacità di credere fortemente in alcuni valori sapendo che ne esistono altri, pur essi rispettabili; di non confondere il pensiero e l’autentico sentimento con la convinzione fanatica e con le viscerali reazioni emotive; di ridere e sorridere anche di ciò che si ama e si continua ad amare; di essere liberi dall’idolatria e dalla dissacrazione, entrambe servili e coatte. Il fondamentalismo intollerante può essere clericale (come lo è stato tante volte, anche con feroce violenza, nei secoli e continua talora, anche se più blandamente, ad esserlo) o faziosamente laicista, altrettanto antilaico.” Lo studio delle religioni si rivela essere lo studio sull’uomo e il dialogo religioso è il dialogo sull’uomo e sul rapporto che esso ha in primo luogo con sé stesso, e poi con gli altri e l’Altro da sé.
Nel 1841 Feuerbach pubblicò a Lipsia la prima edizione dell’Essenza del cristianesimo scardinando e ribaltando le posizioni hegeliane allora dominanti: “l’essere assoluto, il Dio dell’uomo, è l’essere stesso dell’uomo”. Lo studio della religione, prima, e delle religioni, poi, si rivela essere, lo studio dell’uomo in quanto l’essenza dell’uomo in generale consiste nell’aspetto più intimo della sua religiosità: è proprio questa, infatti, che distingue l’essere umano dall’animale. Se l’esistenza di una molteplicità di religioni praticate e ritenute veritiere è una realtà oggettiva, è decisivo determinare se queste siano costruzioni storiche che rispondono a specifiche esigenze umane oppure se siano manifestazioni di una religio metastorica. In un caso l’universalità del sacro è resa riconoscibile per mezzo di forme ricorrenti e riconoscibili mentre nell’altro le religioni nella propria manifestazione entro il flusso della storia – come plasmata dall’uomo – sono il frutto dell’espressione umana e sono caratterizzate da un percorso di vita che non implica alcuna scala gerarchica, conferendo loro pari dignità culturale.
Il tratto distintivo e determinante della storia delle religioni, quindi, risulta essere l’intimo valore del plurale indagato secondo categorie di pensiero nuove: lo sguardo storico-religioso non si ferma a quella che è considerata generalmente in Occidente come la religione per antonomasia, ma estende il proprio orizzonte culturale e di studi grazie anche al fondamentale apporto etnografico e antropologico. L’importante è il principio di relazione: “Ogni phainomenon è un genomenon, ogni apparizione presuppone una formazione, e ogni evento ha dietro di sé un processo di sviluppo” affermò Raffaele Pettazzoni, capofila della scuola italiana degli studi storico-religiosi. A partire dall’analisi del fenomeno, quindi, è possibile calarsi nella realtà profonda e dinamica delle religioni senza essere religiosamente impegnati. In definitiva, è possibile affermare, con Ernesto De Martino, che cercare di fare storia delle religioni ritenendo la dimensione del sacro un’invariante che si manifesta nella storia, che pure la condiziona senza esserne a sua volta condizionata, è impossibile: non è storia delle religioni bensì solo una – pur fondamentale – testimonianza della storia religiosa. L’importanza dell’esperienza esistenziale è primaria sebbene non assoluta. Ernesto De Martino ha provato a creare delle categorie di pensiero nuove e diverse declinando, a partire dal fenomeno, le esperienze religiose, pur non prescindendo dal dibattito relativo all’impossibilità o all’incapacità di fornire una dimostrazione del sentimento religioso individuale ontologicamente dato a priori. “Che il punto di partenza della religione sia il rapporto col numinoso è proposizione del tutto trasparente per chi è religiosamente impegnato: che però il rapporto col nume possa essere il punto di partenza anche per la storia delle religioni significa semplicemente dar vita ad un prodotto ibrido nel quale si confondono scienza storica della vita religiosa e vita religiosa in atto”.