Veronica; poetessa e cortigiana
Cortigiana ambita dai re europei. Il suo "mestiere! le garantì l'autonomia per poter essere una delle maggiori poetesse del cinquecento. Una storia quasi sconosciuta, quella di Veronica Franco. Artista in un mondo in cui le donne erano un oggetto in vendita al miglior offerente.
La sala è sfarzosamente pacchiana, decadente, come se le pareti
respirassero il sapore amaro di una fine impero. Veronica ha 28 anni, e
si potrebbe anche sentire vecchia in mezzo a tutta la gioventù eccitata
che la circonda. Ragazzine troppo cresciute, estasiate di essere al
cospetto del “sovrano”. I committenti della festa le hanno volute in
erba, le invitate. Ingenue nelle risate e nell’espressione, bambine
anche nella gioia. Il “cesare” ha bisogno di distrarsi, ultimamente ha
troppi pensieri: dubbi politici, rivolte, alleati non del tutto fedeli,
come se a poco a poco un potere che riteneva assoluto si stesse
sgretolando. Veronica sta in disparte. Osserva le ragazzine ingenue
proporsi al sovrano senza pudore, senza vergogna. Sa che molte di loro,
proprio in questa festa, si stanno giocando il futuro. Da una parte la
possibilità di una ricchezza e un agio, dall’altra un oblio mediocre,
doloroso e inesorabile. Il loro destino è in mano alla compiacenza del
re, che in mezzo a tanta esuberanza si mostra divertito, come il copione
non fosse lo stesso di ogni volta, come, nella memoria, i volti non si
sovrapponessero identici a quelli delle altre serate, e anche il calore
e l’odore dei corpi, i seni abbondanti, i culi tondi nelle stoffe
leggere e le labbra troppo socchiuse, non dessero, sempre, lo stesso
umore. Il re è felice, compiaciuto. Come non sapesse leggere la
convenienza in tutto quell’entusiasmo che gli sta attorno, come
ignorasse che l’adorazione di ognuna ha avuto un prezzo negoziato e
pattuito. Come se il potere di meritarsi tutto questo, fosse necessario e
sufficiente. E il resto, anche la manifesta e patetica differenza fra
la stagione fisica del re e quella gioventù, è come non fosse nulla,
nulla.
Veronica guarda disincantata il potere assoluto, soppesandolo con tutto quello che la vita le ha insegnato. Già, quello è il re. Una taglia piccola, su cui gli sforzi dei maggiordomi e gli imbellettamenti non sono serviti a nascondere l’età. D’altra parte, Veronica conosce il male della sua epoca, che è la confusione fra costruzione e verità, un mondo che sta scivolando verso un’apparenza sempre più marcata, con una cultura che costruisce palafitte per allontanare sempre più ciò che si rappresenta, da quello che è. Barocco. E’ quello il nome.
Ma Veronica, aspetta. Aspetta che venga notte. Che il sovrano la chiami. Perché fra tutta la bellezza giovane che gli organizzatori gli hanno messo attorno, il sovrano ha scelto lei. E’ la grandezza del re. Una scelta personale, al di fuori delle offerte compiacenti. Se ne sarebbe andata la schiuma e l’ultima onda, l’avrebbe lasciata sola con lui. Poche ore, ma pagate tanto, come nessuna, lì, avrebbe potuto guadagnare in una vita.
“All’altissimo favor che la Vostra Maestà s’è degnata di farmi, venendo all’umile abitazione mia, di portarne seco il mio ritratto, in cambio di quella viva imagine che nel mezzo del mio cuore Ella ha lasciato delle sue virtù eroiche e del suo divino valore... io non sono bastevole di corrispondere”
Veronica l’ha già preparata, la lettera. Furbamente compiacente, e cruda. L’avrebbe spedita all’ambasciatore, che a sua volta l’avrebbe trasmessa, alla corte. Mancava solo la firma, che andava imbrattata del selvatico del suo corpo. La firma, il suo inchiostro. L’arte della cortigiana. “All’illustrissimo sovrano Enrico III di Valois… Veronica Franco, AD 1574…”
Veronica Franco. Avviata al “mestiere” dalla madre, anch’essa cortigiana, appena adolescente segnata al catalogo delle cortigiane della repubblica di Venezia con la tariffa di due scudi. Un mestiere poco romantico, come lei stessa scriveva:
“Troppo infelice cosa e troppo contraria al senso umano è l’obligar il corpo e l’industria di una tal servitù che spaventa solamente a pensarne. Darsi in preda di tanti, con rischio d’esser dispogliata, d’esser rubbata, d’esser uccisa, ch’un solo un dì ti tolga quanto con molti in molto tempo hai acquistato, con tant’altri pericoli e d’ingiurie e d’infermità contagiose e spaventose; mangiar con l’altrui bocca, dormir con gli occhi altrui, muoversi secondo l’altrui desiderio... qual maggior miseria?” Veronica faceva il mestiere perché non ne conosceva altri, ma in fondo anche perché era l’unico che potesse donare autonomia intellettuale ad una donna del cinquecento. Veronica Franco fu uno dei poeti più importanti del sedicesimo secolo, tale la considerava Montaigne e tale la riteneva Benedetto Croce, che la riscoprì. Veronica condusse una vita agiata. La sua sfarzosa abitazione fu considerata per un ventennio centro di cultura europea, la sua compagnia fu gradita da dogi, vescovi e sovrani e diventò punto di riferimento consapevole e compiaciuto, come mostra il ritratto che le fece il Tintoretto…
Veronica guarda disincantata il potere assoluto, soppesandolo con tutto quello che la vita le ha insegnato. Già, quello è il re. Una taglia piccola, su cui gli sforzi dei maggiordomi e gli imbellettamenti non sono serviti a nascondere l’età. D’altra parte, Veronica conosce il male della sua epoca, che è la confusione fra costruzione e verità, un mondo che sta scivolando verso un’apparenza sempre più marcata, con una cultura che costruisce palafitte per allontanare sempre più ciò che si rappresenta, da quello che è. Barocco. E’ quello il nome.
Ma Veronica, aspetta. Aspetta che venga notte. Che il sovrano la chiami. Perché fra tutta la bellezza giovane che gli organizzatori gli hanno messo attorno, il sovrano ha scelto lei. E’ la grandezza del re. Una scelta personale, al di fuori delle offerte compiacenti. Se ne sarebbe andata la schiuma e l’ultima onda, l’avrebbe lasciata sola con lui. Poche ore, ma pagate tanto, come nessuna, lì, avrebbe potuto guadagnare in una vita.
“All’altissimo favor che la Vostra Maestà s’è degnata di farmi, venendo all’umile abitazione mia, di portarne seco il mio ritratto, in cambio di quella viva imagine che nel mezzo del mio cuore Ella ha lasciato delle sue virtù eroiche e del suo divino valore... io non sono bastevole di corrispondere”
Veronica l’ha già preparata, la lettera. Furbamente compiacente, e cruda. L’avrebbe spedita all’ambasciatore, che a sua volta l’avrebbe trasmessa, alla corte. Mancava solo la firma, che andava imbrattata del selvatico del suo corpo. La firma, il suo inchiostro. L’arte della cortigiana. “All’illustrissimo sovrano Enrico III di Valois… Veronica Franco, AD 1574…”
Veronica Franco. Avviata al “mestiere” dalla madre, anch’essa cortigiana, appena adolescente segnata al catalogo delle cortigiane della repubblica di Venezia con la tariffa di due scudi. Un mestiere poco romantico, come lei stessa scriveva:
“Troppo infelice cosa e troppo contraria al senso umano è l’obligar il corpo e l’industria di una tal servitù che spaventa solamente a pensarne. Darsi in preda di tanti, con rischio d’esser dispogliata, d’esser rubbata, d’esser uccisa, ch’un solo un dì ti tolga quanto con molti in molto tempo hai acquistato, con tant’altri pericoli e d’ingiurie e d’infermità contagiose e spaventose; mangiar con l’altrui bocca, dormir con gli occhi altrui, muoversi secondo l’altrui desiderio... qual maggior miseria?” Veronica faceva il mestiere perché non ne conosceva altri, ma in fondo anche perché era l’unico che potesse donare autonomia intellettuale ad una donna del cinquecento. Veronica Franco fu uno dei poeti più importanti del sedicesimo secolo, tale la considerava Montaigne e tale la riteneva Benedetto Croce, che la riscoprì. Veronica condusse una vita agiata. La sua sfarzosa abitazione fu considerata per un ventennio centro di cultura europea, la sua compagnia fu gradita da dogi, vescovi e sovrani e diventò punto di riferimento consapevole e compiaciuto, come mostra il ritratto che le fece il Tintoretto…